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La Luna

Vi offro un altro racconto horror… o quasi. Del resto, si parla d’amore. Giudicate voi se talvolta anche i sentimenti possono definirsi tali pur in contesti non proprio rassicuranti. Avevo anche l’intenzione di fare di questo breve racconto una sorta di introduzione per una serie di storie ambientate in un crepuscolare mondo vampiresco… più orientate a esplorare la dimensione oscura del terrore psicologico piuttosto che le implicazioni horror classiche. Se mi incoraggiate con i vostri commenti forse partiamo con questa serie…

La Luna 

Per una piccola truffa, fui condannato a 5 anni di reclusione. Uscito di galera, me ne tornai al paese dei miei genitori, scomparsi da tempo, ai piedi delle Alpi Apuane. Rocce, terra dura, vacche e sassi, tanti sassi. La casa ora l’avevo: fredda, tetra, isolata, piena di mobili vecchi e puzzolenti di generazioni vissute a pane e campagna, un chilometro dopo la frazione più lontana da P., cittadina montana immersa tra i boschi. Dovevo sopravvivere razionando i pochi risparmi accumulati durante 15 anni di lavoro come contabile, e l’importo di buoni postali sottoscritti da mio padre in vent’anni di pensione. Ricordo che diceva: “ La casa non vi servirà certamente, la venderete… ma i soldi non vi basteranno mai, figli miei!” Previsione esatta solo a metà.

Piuttosto, avrei il dovere di dividerli con mio fratello, se solo sapessi dov’è andato a cacciarsi; non lo vedo da una vita, anche se ho saputo che qualche anno fa, era in Oman, al lavoro per una ditta edile. Mia sorella, invece, tre anni or sono è stata fagocitata dalla nebbia di Milano con il marito ed il figlioletto… Dopo l’incidente, faticai a riconoscerla, poi, mentre piangevo, un carabiniere mi rimise le manette per riportarmi in carcere.

 Le mie giornate scorrevano lente e sempre uguali, e la notte solo la luna assisteva alla mia insonnia, divisa tra i vecchi libri e la televisione perennemente disturbata dalle montagne vicine. Di donne, nella mia situazione, neanche a parlarne. Spesso andavo a passeggiare lungo i sentieri inondati dalla luna, almeno quando il clima lo permetteva… talvolta l’esasperazione mi portava ad accendere tutte le luci del pianterreno, dove vivevo. La piccola cucina, due bagni, la biblioteca ed il lettino ricavato nel tinello. Le camere da letto del piano superiore conservavano troppi ricordi.

All’alba riuscivo a prendere sonno fino alle undici, poi uscivo a comprarmi da mangiare, scambiavo quattro chiacchiere con il giovane parroco dell’unica chiesa del paese che, invariabilmente, si rivelava fonte di notizie e commenti sulla vita del piccolo centro. Arrivai a pensare di poter invecchiare in quel modo, finché quella routine venne spezzata per sempre quando un’altra famiglia venne a stabilirsi in un casale ristrutturato, a meno di due chilometri da casa mia. Non esisteva sito più appartato nelle vicinanze di P. e gli alti abeti intorno impedivano persino di scorgere l’edificio, ribattezzato pomposamente dall’ultimo proprietario Villa del buon ritiro

 La domenica successiva, a Messa, all’ultima funzione serale notai i nuovi arrivati, che identificai facilmente in base alla descrizione, fattami dal solito parroco, della giovane figliola della coppia alquanto dimessa: una ragazza pallida, dai lineamenti talmente delicati da farla apparire sofferente. I lunghi capelli neri avevano il colore della notte, ricadendo, disordinati, sul collo di pelliccia del vecchio cappotto. Il padre e la madre, alti di statura, curvi, immersi nelle loro preghiere, dimostravano tutti gli anni di chi nella vita ha combattuto battaglie sempre più dure e quasi sempre perse. Erano seduti vicino la ragazza che, in mezzo a loro, sembrava voler scomparire sotto il peso di chissà quale pentimento…

La fissai a lungo, incuriosito più che sorpreso, ma poi dimenticai ben presto quell’incontro finché, dopo qualche giorno, capitai, di mattina, nella farmacia del paese. Il vecchio Saint Paul, occhi sempre bassi, stava acquistando alcuni medicinali… Elegante d’aspetto ma indossava abiti passati di moda, stonava incredibilmente in quel locale pieno di luce, con una radio che urlava rock duro e due adolescenti che chiedevano profilattici.

– Sta curando un anemico… – mi sussurrò Roberto il farmacista, mentre il vecchio usciva dal negozio – M’ha chiesto dove trovare plasma per trasfusioni. Forse, un leucemico. Lo sai, siete vicini di casa…

Qualcosa mi costrinse a seguire il signor Saint Paul e, prima che s’infilasse nella vecchia Mercedes nera, lo salutai:

– Ci conosciamo? – rispose, sorpreso.

– Sarebbe il caso… siamo vicini: abito nella villetta dall’altra parte della provinciale, oltre il bosco di abeti.

– Ah… –

Gli dissi il mio nome e lui strinse con poco entusiasmo la mano che gli porgevo – Avete scelto una dimora un po’ isolata; in paese c’è di meglio!

– Amo la solitudine – disse, bruscamente – Ora, perdonatemi, ma devo andare.

Non trovai modo di prolungare quella conversazione e lui accese il motore della vettura per allontanarsi lentamente in direzione della provinciale.

Quella sera, come al solito, non riuscivo a dormire e, attenuatosi il freddo dei giorni precedenti, mi decisi a fare una camminata sotto la luna. Il chiarore agevolava talmente il cammino che, quasi senza pensarci, percorsi chilometri, aspirando con voluttà l’aria sempre più fresca proveniente dalle montagne, finendo per attraversare la provinciale, deserta a quell’ora, fino a ritrovarmi a fissare Villa Saint Paul. Erano le due del mattino, ormai, ed avrei intrapreso la via del ritorno se un’ombra scura non avesse coperto, per un attimo, la luna…

Il gelo più intenso che ricordavo ed un’oscurità totale mi avvolsero completamente. Il mio sangue si fermò nelle vene e strinsi forte i pugni mentre, per istinto, alzai la pesante torcia elettrica sopra la testa… e si accese.

 Ancora oggi sono convinto che quel gesto istintivo mi salvò la vita… Il fascio di luce, improvviso, violento come una lama di fuoco, tagliò il buio e colpì le pupille di uno strano animale volante, forse un grosso pipistrello, che lanciato un urlo stridulo, si dileguò nelle tenebre, altissimo.

Stordito, mi rialzai e tornai verso casa, piuttosto in fretta, madido di sudore, pieno di paura… Non sapevo che la mia avventura era appena all’inizio.

Cadendo un paio di volte lungo il sentiero di campagna, mi strappai i pantaloni all’altezza delle ginocchia ed il sangue aveva intriso la stoffa pesante… me ne accorsi solo arrivato davanti alla mia casa. Entrai nel tepore della vecchia abitazione, ansimando per la lunga corsa. Senza accendere la luce mentre mi spogliavo, con la luna che inondava la camera da letto, brillando nello specchio ovale… e sulla pelle candida di una presenza estranea, proprio accanto al vecchio comò… Non ebbi il tempo di provare curiosità, paura, orrore… Ero nudo, ferito e qualcuno mi fissava nella penombra, in quel silenzio spaventoso! Una voce di donna, lontana, flebile come un sussurro nel vento, arrivò alle mie orecchie:

– Non avere paura…

Non vidi muoversi la sconosciuta ma le sue mani gelide mi spinsero sul letto… poi sentii i suoi lunghi capelli ricadere sul mio viso, e la donna cominciò a passarmi la lingua sul collo, sul petto, sempre più giù fino… alle ginocchia ferite. La sua saliva si mischiò al mio sangue, senza dolore e con uno strano tepore che ci univa. Mi addormentai.

 Fu il sole della tarda mattinata a farmi aprire gli occhi; mi sentivo stranamente bene, rilassato, e solo dopo un po’ mi venne in mente quanto accaduto di notte. Istintivamente, cercai la mia sconosciuta ospite… senza trovarla. Sconosciuta dfino ad un certo punto, poi… sapevo benissimo chi era! Più tardi, in paese, affrontai il signor Saint Paul che si aggirava nel mercato.

Lo salutai e lui rispose di malavoglia, ma continuai:

– Che malattia ha, esattamente, sua figlia? E’ emofiliaca?

– Che le interessa? – bofonchiò, scuro in volto.

– Tanto per parlare… forse il clima di qui non è l’ideale per la ragazza.

– Bene, ha detto la sua… Ora, se vuole scusarmi…

– Eh, no! – mi parai davanti al vecchio – Per caso, soffre pure di sonnambulismo?

L’uomo non mi guardava in faccia.

– Stanotte l’ho incontrata.

– Mia figlia è una brava ragazza ma dorme poco.

– Stanotte è venuta nella mia camera da letto!

Saint Paul stavolta mi fissò allarmato – Cosa?

– Già, proprio così. Come lo spiega?

– Andiamo via da qui! – tagliò corto – Venga da me e parliamone.

 Con un bicchiere di rosolio in mano, nel salotto del villino Saint Paul, avevo finito da poco di rispondere ad una serie interminabile di domande sul mio conto e sulle mie abitudini, quando, finalmente, ne feci una io:

– Come si chiama sua figlia?

– Lisette.

– Dov’è ora?

– Dorme. Ed anche mia moglie. Ovviamente.

– Capisco. Posso aspettare che Lisette si svegli?

– No! Specie se ha assaggiato il suo sangue! – urlò il vecchio, alzandosi di scatto dalla poltrona di velluto verde. Si avvicinò al camino, acceso, grattandosi nervosamente il mento.

– Si sente sola, sua figlia, vero? – chiesi, con tono conciliante.

– Stanotte non è certo venuta da lei per questo! Sta solo cercando una vittima da prosciugare, come fece sua madre con me. Mi ripresi appena in tempo… Questa è l’unica forma d’amore che possono provare!

– Certe donne la pensano allo stesso modo. – ridacchiai, tanto per rompere la tensione.

– Lei non comprende. Ho vissuto con loro per tanti anni, amandole e proteggendole dal mondo dei normali e non consiglierei la stessa esperienza ad altri. Nascondersi sempre, cambiare città, riservati, silenziosi, misteriosi e senza amicizie… Che vita è? Ora torni a casa: la notte è vicina!

Mi spinse via da casa sua, dimostrando la massima preoccupazione. Che non condividevo affatto: ero stregato dal desiderio di rivedere la ragazza e, tornato a casa, aspettai con impazienza che scendesse la notte. Presi sonno senza accorgermene e mi destarono alcuni colpetti contro la finestra… Mi avvicinai al vetro e quel che vidi mi fece gelare il sangue nelle vene. Un enorme pipistrello nero stava cercando di attirare la mia attenzione picchiando il muso da ratto contro il vetro… Qualcosa in me costrinse le mie mani ad aprire le imposte per far entrare quella mostruosità che, alla luce della luna scese sul pavimento in forma di donna. La mia donna. I lunghi capelli nerissimi le sfioravano appena il seno pieno, florido, bianchissimo e la sinuosità della sua figura mi ipnotizzò completamente… Mi svegliò il suo fiato, ansimante, freddo come una lama di ghiaccio.

– Chi sei… tu?

– Quella che aspettavi. –  sussurrò lentamente, dolcemente.

– Vuoi il mio sangue, Lisette?

– Non temere, non ti ucciderò. Ma ho bisogno di te… Solo qualche goccia del tuo sangue mi garantirà la vita, ed io so come ricompensarti.

 Da allora, ci vediamo ogni notte e sta andando come disse lei. Lei che è il mio amore, la mia vita… ed io la sua. La vedo rifiorire dopo ogni prelievo che fa lei stessa, usando una siringa sterilizzata. Io brindo con lei, bevendo del vino, in due calici di cristallo purissimo. Poi ci amiamo fino al primo chiarore dell’alba quando Lisette, prima che la luna svanisca, vola via nell’aria fresca che scende dalle montagne, dopo avermi giurato eterno amore, il vero amore!

AmandA

Vi offro un altro dei mei racconti, stavolta un horror la cui trama mi è stata suggerita da un sogno… Uno dei miei racconti giovanili, scritti quando ero poco più che un ragazzo. Come al solito, aspetto i vostri commenti.

A M A N D A

 

 

 

racconto

 

di

 

Marco Caruso

 

 

 

 

 

A ben vedere, non avrei potuto dire niente di male della mia nuova fiamma. Amanda era giovane, carina, solare come un fiore in primavera.

L’avevo conosciuta al liceo di Salt Lake, durante una breve colazione nella mensa studentesca più vicina, prima della lezione di Fisica; la sua simpatia, naturale, spontanea, aveva aggredito il mio cuore come i suoi candidi dentini stavano facendo con il minuscolo panino vegetariano che Joan, l’atletica cameriera di Jing’s, le aveva appena servito al tavolo accanto al mio.

In quel momento, stavo discutendo con Phil Aitkins una nuova tattica da applicare per il prossimo incontro di basket nelle fasi di pressing che il buon Phil affermava d’aver perfettamente capito dal sermone settimanale del nostro coach.

Ora, devo ammettere che per il basket ho una certa passione; tuttavia, gli occhi color acciaio della biondina seduta a meno di cinquanta centimetri dalla tasca destra dei miei pantaloni, mi distraevano alquanto dalle spiegazioni del mio loquace compagno di classe, squadra e spuntino. O almeno, così egli affermò:

– Cazzo, Paul, mi stai a sentire?

– Con questo chiasso? – risposi, distrattamente, mentre osservavo la biondina detergere delicatamente una goccia di salsa dal lato sinistro della boccuccia a cuoricino.

– Chiasso? Qui c’è sempre chiasso, Paul! c’è mezzo liceo, da Jing’s… non mi dirai che ti piace quella… – aggiunse, abbassando la voce, dopo un attimo di stupore.

– Quella? Ti pare il modo giusto di appellare una dea?

Phil fece uno strano gesto di disgusto che vidi solo con la coda dell’occhio. La dea in questione si era appena alzata, aveva preso la borsetta e diretto il suo splendido fisico da ballerina classica verso l’uscita del chiassoso locale.

Phil aggiunse qualcos’altro sul conto da pagare mentre, ipnotizzato dalle più belle chiappe da sedicenne che avessi mai visto, mi accingevo a seguire la dea verso il primo pomeriggio assolato di quel settembre.

Fu l’inizio della mia storia con Amanda. Non servirebbe raccontarvi cosa inventai per abbordarla, dopo un paio di isolati in direzione opposta alla scuola.

Né ricordo, in questo momento, le frasi più o meno idiote che pronunciai nelle tre ore seguenti, prima di riaccompagnarla alla villetta appena fuori città.

Rammento solo che mi disse di essere nuova di quelle parti, di aver passato i primi anni della sua meravigliosa esistenza a Boston ed aver seguito la madre, per lavoro, nella mia città solo da pochi giorni.

Al momento di lasciarla, forse per il dispiacere di dover interrompere, magari per poche ore, la nostra frequentazione, eravamo arrivati alla sua abitazione, una villetta a due piani buia ed alquanto tetra che si ergeva all’inizio di un freddo viale alberato… mi parve quanto di più triste si possa immaginare.

– E’ tutto buio… I tuoi genitori sono in casa?

– Mia madre, vorrai dire… – rispose con un risolino malizioso – Papà non l’ho mai conosciuto…

– Oh, mi spiace.

– Fa niente. Non si può desiderare, o rimpiangere, chi non si conosce. Comunque, mia madre va a dormire molto presto. Ora ti devo lasciare…

Il bacio, rapido e furtivo, che mi lasciò sulla guancia destra, bruciò a lungo nei tre, lunghissimi, giorni che seguirono. Non vidi mai la ragazza al liceo, né, maledizione, ricordavo se mi aveva detto il suo cognome.

– Amanda, Amanda… Amanda come? – ripeteva Phil, mentre Erik, il ciccione, divorava salsicce. Io, che sedevo tra i due amici e che stranamente soffrivo d’improvvisa inappetenza, replicai, scocciato:

– Ti dico che non mi ricordo! Abbiamo parlato di tante cose,del padre che non ha…

– Mentre te la facevi sotto a guardare i suoi occhioni?… Coff… – tossì Erik mentre cercava di ridere e masticare contemporaneamente.

– Comunque – riprese Phil, non risulta nessuna Amanda, qui da noi. Ne sono certo. – E c’era da credergli: Joan (la sua nuova amichetta) era la figlia di un impiegato di segreteria.

– Forse la sua iscrizione non è stata ancora registrata. Dice d’esser appena arrivata da Boston. La madre è qui per lavoro.

– Quale lavoro? – bofonchiò Erik

– Che vuoi che ne sappia? Avrò tempo e modo per conoscerla meglio… Penso di andare a trovarla, magari dopo la lezione.

– Uhm – fece Phil, guardando dalla finestra ovest di Jing’s – Proprio stasera?

In effetti, alcune nuvole grigiastre piuttosto veloci si rincorrevano a bassa quota nel cielo tempestoso di quel sabato pomeriggio. La radio aveva annunciato un uragano ancora piuttosto lontano e, si sa, nell’America degli anni Trenta, la radio non sbagliava mai…

– Ho capito, furbone… – sorrise Erik – Fingerai di aver perso la strada nella bufera… Chissà come, dalle parti della tua bella… E chiederai rifugio ed ospitalità… Tra le sue cosce? O piuttosto tra quelle della mammina?

La sua risata sguaiata non mi irritò più di tanto. A dire il vero, l’idea del ciccione non era affatto malvagia. Un uragano era proprio quel che ci voleva per rivedere Amanda. Una piccola bugia per una grande causa!

E la bufera arrivò sul serio, poco prima che giungessi alla meta dei miei sogni. Vedevo appena la sagoma scura, che appariva e scompariva tra le chiome degli alberi scompigliate dal vento fortissimo, e non riuscivo a calcolare bene la distanza dalla villetta di Amanda. Avevo detto ai miei che avrei passato la notte da Phil che, per una straordinaria coincidenza, era stato felicemente abbandonato dai suoi, partiti per una gita di lavoro a Reno. Niente e nessuno mi avrebbe disturbato o tenuto lontano dalla donna padrone del mio giovane cuore.

Cominciò a piovere, prima debolmente, poi con goccioloni frenetici e freddissimi che scudisciavano il mio giaccone impermeabile, i capelli, entrandomi persino nelle orecchie a causa di quel maledetto ventaccio.

Ad un certo punto, mentre camminavo sulla Stradale assolutamente deserta, mi parve che la villetta di Amanda si allontanasse, ad ogni passo, invece che avvicinarsi. Un effetto ottico indubbiamente stranissimo, dovuto, probabilmente, alla falsa prospettiva che generava quella strada tutta curve fendente la vegetazione del sottobosco.

Ero ormai bagnato fradicio, infreddolito e scosso da folate di vento sempre più impetuoso, e non mi restò altro che dirigere una veloce preghiera a qualunque dio di passaggio nelle vicinanze affinché mi permettesse di raggiungere in fretta la veranda davanti alla porta che nascondeva la mia bella.

E, miracolosamente, la vidi. E vidi anche una debolissima luce filtrare dalle tendine ricamate di una finestra al piano superiore. Sembrava uno di quei lumini che si lasciano accesi nella stanza dei bambini per evitare che abbiano paura del buio.

Quando suonai il campanello a carillon, due, tre volte, nessuno rispose.

Ora il vento fischiava minacciosamente tra nuvole inferocite e lampi sempre più frequenti. Sembrava che un vero e proprio uragano si stesse avvicinando. Una certa inquietudine iniziò a scuotere le mie mascelle e mi ritrovai a battere i denti come un donnetta infreddolita. Perché diavolo Amanda non apriva? E sua madre, era sorda o invalida?

Bussai con le nocche della mano destra fino a ferirmi, mentre la pioggia mi sferzava la schiena e le gambe con una furia degna di miglior causa. Grondavo acqua anche dalle orecchie quando, senza che ormai ci sperassi più, la porta si socchiuse, e da dentro, una vocina flebile chiese:

– Ma… Chi è?

– Ehm… – cercai di schiarirmi la voce – Sono un amico di Amanda… Un compagno di liceo… Mi sono perso in questa bufera… Posso entrare?

  Non ricevetti subito risposta, mentre, istintivamente, battevo le mani al fine di favorire la circolazione dei miei arti superiori, praticamente intirizziti.

– E’ la madre di Amanda…? Signora, qui fa un freddo cane!

– Io non la conosco. – disse la vocina, timidamente. – Non sono abituata ad ospitare viandanti.

– Ma Amanda mi conosce! Può chiederle se conosce Paul? La prego, sono tutto bagnato…

– E’ da solo, ragazzo?

– Ma certo. Le ripeto che…

La porta si spalancò prima che finissi la mia supplica. Ed io, non so come, fui letteralmente risucchiato dentro quella casa, al buio, al freddo.

Stavo cercando di capire come fossi finito, in ginocchio, su un tappeto al tatto ruvido e sporco, e nel contempo orientarmi in quel buio assoluto, rotto solo dai lampi che provenivano dalle finestre del pian terreno.

– Sì…signora? Cosa…? Dove?… Signora!

– Ssshhhh… Non gridare….

 

La voce di Amanda, in un debole soffio, mi aveva sfiorato l’orecchio. Mi venne spontaneo sussurrare anch’io:

– Amanda, amica mia… Dove sei? Perché non posso vederti?

– La luce, Paul… E’ mancata la corrente a causa della bufera…

– Ma dove sei? Eri tu, o tua madre? Sai, non voleva farmi entrare…

– Noi  non riceviamo nessuno, specie di notte… Siamo donne sole. Perché sei venuto?

– Non ti ho vista più – confessai, sfinito dalla tensione e dalla stanchezza – A scuola non…

– Sono stata poco bene. Non saresti dovuto venire, specie con questo tempo, specie di notte!

Il tono della ragazza si era fatto più duro. Mi sentivo un bambino rimproverato dalla madre. Attesi una parola ancora da Amanda, mentre cercavo argomenti impossibili da trovare per alleviare la mia posizione.

Passò un minuto o forse un’ora. Persino i lampi non osavano più disturbare la quiete assoluta di quella casa, senza luce, assente di suoni, priva di calore. Il tempo fece una strana contorsione mentre stringevo le mie mani per recuperare un po’ di calore. Mi accorgevo solo in quel momento che stavo gelando. Bagnato com’ero, mi sembrava di trovarmi dentro un frigorifero.

– Amanda, ho un freddo… Amanda?

Ripetei quel nome varie volte, ma la mia voce rimbalzava in un incredibile eco sordo intorno a me, in quella stanza invisibile ed inconsistente. Cercai, a tentoni, istintivamente, di raggiungere il volto della ragazza che mi era parso abbastanza vicino al mio, durante il precedente scambio di battute.

– Amanda… – balbettai, tremando come una foglia al vento per il freddo che mi stava divorando le viscere – Non… vorrei esagerare… ma sto morendo dal freddo! Amanda… –

Niente. Nessuno. Ma com’era possibile non sentire il rumore della bufera?

Ora che i miei occhi si stavano abituando a quella apparente oscurità, mi resi conto che pochissima luce filtrava dalle tende pesanti tirate sulle finestre. Alcuni spifferi, di tanto in tanto, le scostavano quel tanto che bastava a provocare fugaci lampi di penombra nel buio più pesto.

Chiamai ancora il nome della mia amica, supplicandola di rispondermi, di accendere una candela, un fiammifero, qualcosa che facesse luce…. E magari, calore.

Fui costretto ad alzarmi e muovere qualche passo, al buio, anche perché non sentivo più le gambe. Fitte dolorose mi stringevano i muscoli, obbligandomi a sfregare freneticamente le mani tra loro e sui vestiti bagnati per alleviare l’intirizzimento.

Non riuscivo a trovare un punto di riferimento davanti a me; ed alle mie spalle, anche la bufera sembrava non scuotere più il bosco intorno alla costruzione silente.

Ricordai d’aver intravisto il chiarore d’un lumino provenire da una finestra del primo piano, mentre, da fuori, bussavo insistentemente alla porta di Amanda. Muovendo passi alla cieca, finalmente inciampai nel primo gradino della scala interna.

Ora potevo salire al piano superiore, appoggiandomi al corrimano, sempre nel buio più pesto. La mia mano sinistra sfiorava la superficie di legno ricavandone una sensazione di sporco oleoso, mentre i gradini sembravano arrampicarsi verso l’infinito… Quella scala arrivava da qualche parte? Da quanti, interminabili, minuti stavo salendo?

Ad un ceto punto, sembrandomi inverosimile la faccenda, mi fermai a riflettere. Stavo vivendo una situazione assurda: forse le mie sensazioni erano condizionate dal freddo che avevo preso durante la mia permanenza all’esterno, mentre infuriava il temporale. Ma non riuscivo a concepire il motivo di quel gelo che ora mi toglieva il fiato e rallentava le mie membra.

E Amanda dov’era? Forse, aveva paura di me, e si nascondeva… Ma certo: quale sistema migliore per bloccare un probabile aggressore? Buio e solo buio. Ed io non avevo neanche un cerino…

E quella scala che sembrava infinita? Ricominciai a salire, contando i gradini. Arrivai alla somma incredibile di sessanta scalini. Non era possibile. Non ero in un grattacielo. Una certa spossatezza riempiva le mie gambe e non sentivo più neanche il freddo. Mi fermai e cercai di sedermi sul gradino che calpestavo in quel momento. Ma, evidentemente, persi l’equilibrio e caddi… dove non immaginavo di cadere.

Mi trovavo al piano superiore, e davanti a me scorgevo la debole luce che avevo intravisto dall’esterno.

Tre porte si aprivano davanti a me, ma solo una era accostata e da lì proveniva il chiarore. Chiamai il nome di Amanda, stavolta molto piano. Tremavo dal freddo e le energie dei miei diciassette anni stavano rapidamente scemando.

Con la mano tremante, scostai la porta e mi ritrovai nella stanzetta di una bimba.

Il lumino a gas emanava una luce azzurrina sulla carta da parati colorata, le tendine ricamate, i cuscini con le bambole.

La madre di Amanda era seduta su una sedia a dondolo, ferma, accanto ad un lettino. Una donna minuta, vestita di scuro, con il volto provato e stanco. Dormiva. Le avrei chiesto il permesso di entrare, se fossi stato in grado di muovere le labbra.  Ma il freddo, ormai quasi tangibile, paralizzava i miei muscoli e mi domandai come diavolo facesse la donna a dormire così serenamente. La bambina nel lettino era voltata sul fianco destro, sotto la mano della madre che sembrava averla confortata fino a farla addormentare. Sul piccolo comodino di legno smaltato bianco, una caraffa d’acqua ed un bicchiere erano posati sul vassoio di legno smaltato, insieme ad un vasetto… Forse miele? Quell’idea mi piacque. Desideravo intensamente qualcosa di dolce, di nutriente, ed avrei solo assaggiato il profumato alimento, senza svegliare quella che doveva essere la sorellina di Amanda.

Ma quando stavo per svitare il tappo di latta, ebbi la sensazione che il corpicino nel letto non si muovesse affatto.

Cribbio, non respirava! Posai, istintivamente, la mano sulla copertina di lana, accanto a quella della donna assopita e toccai un gelido corpo inerte.

Sul vasetto che avevo in mano, un’etichetta ingiallita recava la scritta ARSENICO .

Realizzai quel che era accaduto, un attimo prima che la bambina, con un sussulto, si muovesse e, scostando la mano della madre sempre immobile, si rizzasse a sedere sul letto:

La frangetta bionda ricadeva sul visetto scheletrico e con la stessa mossetta che ricordavo di Amanda, sentii il corpo senza vita di quella sfortunata creatura sussurrare stranamente, come se il suono venisse dall’interno e non dalla boccuccia che pareva ancora chiusa, contratta in una smorfia durissima:

– Mi hai trovato, Paul. Questa è la mia tomba. Vuoi restare con me?

Non fu per paura che mi gettai contro la finestra, schiantando gli infissi di legno marcito e precipitando, dopo un volo che mi parve esageratamente breve, sul suolo intriso d’acqua. Qualcosa in me si ribellò a quella oscena proposta. La ragazza che cercavo non c’era mai stata se non per me, e per la bambina alla quale un gesto crudele aveva spezzato l’infanzia.

Qualunque fosse il motivo di quell’infanticidio, restai a riflettere, nei mesi successivi passati nel letto dell’ospedale cittadino a quanto avevo vissuto nella vecchia casa abbandonata ai margini del bosco.

L’interrogatorio doveroso dello sceriffo e le scarse spiegazioni ricevute dai miei genitori riguardo la villetta sulla strada provinciale, non placarono le domande che ancora affollavano la mia mente inquieta. In effetti, la famiglia Garrison aveva abitato una casa in legno ai margini del bosco fino ai primi anni del 1900, quando il marito ed il primo figlio si ammalarono e morirono di tisi, seguiti, dopo qualche tempo, dalla signora Garrison e dalla figlioletta, Amanda Jean Garrison, venuta al mondo dopo la scomparsa del padre e del fratello. Le cronache del tempo non riportavano commenti sulla causa di quella duplice tragedia avvenuta durante la tempesta di una sera di trent’anni prima.

Qualche anno dopo, tornai a visitare quel che restava di quella vecchia casa, lontana più di due chilometri dall’attuale centro di Salt Lake e non nella posizione in cui l’avevo sognata io.

Perché di un sogno si trattava, certamente, e non di realtà. Quante volte me lo sono ripetuto, in questi anni, mentre cerco di dimenticare gli occhi di una donna alla quale fu impedito di esistere.