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La Luna

Vi offro un altro racconto horror… o quasi. Del resto, si parla d’amore. Giudicate voi se talvolta anche i sentimenti possono definirsi tali pur in contesti non proprio rassicuranti. Avevo anche l’intenzione di fare di questo breve racconto una sorta di introduzione per una serie di storie ambientate in un crepuscolare mondo vampiresco… più orientate a esplorare la dimensione oscura del terrore psicologico piuttosto che le implicazioni horror classiche. Se mi incoraggiate con i vostri commenti forse partiamo con questa serie…

La Luna 

Per una piccola truffa, fui condannato a 5 anni di reclusione. Uscito di galera, me ne tornai al paese dei miei genitori, scomparsi da tempo, ai piedi delle Alpi Apuane. Rocce, terra dura, vacche e sassi, tanti sassi. La casa ora l’avevo: fredda, tetra, isolata, piena di mobili vecchi e puzzolenti di generazioni vissute a pane e campagna, un chilometro dopo la frazione più lontana da P., cittadina montana immersa tra i boschi. Dovevo sopravvivere razionando i pochi risparmi accumulati durante 15 anni di lavoro come contabile, e l’importo di buoni postali sottoscritti da mio padre in vent’anni di pensione. Ricordo che diceva: “ La casa non vi servirà certamente, la venderete… ma i soldi non vi basteranno mai, figli miei!” Previsione esatta solo a metà.

Piuttosto, avrei il dovere di dividerli con mio fratello, se solo sapessi dov’è andato a cacciarsi; non lo vedo da una vita, anche se ho saputo che qualche anno fa, era in Oman, al lavoro per una ditta edile. Mia sorella, invece, tre anni or sono è stata fagocitata dalla nebbia di Milano con il marito ed il figlioletto… Dopo l’incidente, faticai a riconoscerla, poi, mentre piangevo, un carabiniere mi rimise le manette per riportarmi in carcere.

 Le mie giornate scorrevano lente e sempre uguali, e la notte solo la luna assisteva alla mia insonnia, divisa tra i vecchi libri e la televisione perennemente disturbata dalle montagne vicine. Di donne, nella mia situazione, neanche a parlarne. Spesso andavo a passeggiare lungo i sentieri inondati dalla luna, almeno quando il clima lo permetteva… talvolta l’esasperazione mi portava ad accendere tutte le luci del pianterreno, dove vivevo. La piccola cucina, due bagni, la biblioteca ed il lettino ricavato nel tinello. Le camere da letto del piano superiore conservavano troppi ricordi.

All’alba riuscivo a prendere sonno fino alle undici, poi uscivo a comprarmi da mangiare, scambiavo quattro chiacchiere con il giovane parroco dell’unica chiesa del paese che, invariabilmente, si rivelava fonte di notizie e commenti sulla vita del piccolo centro. Arrivai a pensare di poter invecchiare in quel modo, finché quella routine venne spezzata per sempre quando un’altra famiglia venne a stabilirsi in un casale ristrutturato, a meno di due chilometri da casa mia. Non esisteva sito più appartato nelle vicinanze di P. e gli alti abeti intorno impedivano persino di scorgere l’edificio, ribattezzato pomposamente dall’ultimo proprietario Villa del buon ritiro

 La domenica successiva, a Messa, all’ultima funzione serale notai i nuovi arrivati, che identificai facilmente in base alla descrizione, fattami dal solito parroco, della giovane figliola della coppia alquanto dimessa: una ragazza pallida, dai lineamenti talmente delicati da farla apparire sofferente. I lunghi capelli neri avevano il colore della notte, ricadendo, disordinati, sul collo di pelliccia del vecchio cappotto. Il padre e la madre, alti di statura, curvi, immersi nelle loro preghiere, dimostravano tutti gli anni di chi nella vita ha combattuto battaglie sempre più dure e quasi sempre perse. Erano seduti vicino la ragazza che, in mezzo a loro, sembrava voler scomparire sotto il peso di chissà quale pentimento…

La fissai a lungo, incuriosito più che sorpreso, ma poi dimenticai ben presto quell’incontro finché, dopo qualche giorno, capitai, di mattina, nella farmacia del paese. Il vecchio Saint Paul, occhi sempre bassi, stava acquistando alcuni medicinali… Elegante d’aspetto ma indossava abiti passati di moda, stonava incredibilmente in quel locale pieno di luce, con una radio che urlava rock duro e due adolescenti che chiedevano profilattici.

– Sta curando un anemico… – mi sussurrò Roberto il farmacista, mentre il vecchio usciva dal negozio – M’ha chiesto dove trovare plasma per trasfusioni. Forse, un leucemico. Lo sai, siete vicini di casa…

Qualcosa mi costrinse a seguire il signor Saint Paul e, prima che s’infilasse nella vecchia Mercedes nera, lo salutai:

– Ci conosciamo? – rispose, sorpreso.

– Sarebbe il caso… siamo vicini: abito nella villetta dall’altra parte della provinciale, oltre il bosco di abeti.

– Ah… –

Gli dissi il mio nome e lui strinse con poco entusiasmo la mano che gli porgevo – Avete scelto una dimora un po’ isolata; in paese c’è di meglio!

– Amo la solitudine – disse, bruscamente – Ora, perdonatemi, ma devo andare.

Non trovai modo di prolungare quella conversazione e lui accese il motore della vettura per allontanarsi lentamente in direzione della provinciale.

Quella sera, come al solito, non riuscivo a dormire e, attenuatosi il freddo dei giorni precedenti, mi decisi a fare una camminata sotto la luna. Il chiarore agevolava talmente il cammino che, quasi senza pensarci, percorsi chilometri, aspirando con voluttà l’aria sempre più fresca proveniente dalle montagne, finendo per attraversare la provinciale, deserta a quell’ora, fino a ritrovarmi a fissare Villa Saint Paul. Erano le due del mattino, ormai, ed avrei intrapreso la via del ritorno se un’ombra scura non avesse coperto, per un attimo, la luna…

Il gelo più intenso che ricordavo ed un’oscurità totale mi avvolsero completamente. Il mio sangue si fermò nelle vene e strinsi forte i pugni mentre, per istinto, alzai la pesante torcia elettrica sopra la testa… e si accese.

 Ancora oggi sono convinto che quel gesto istintivo mi salvò la vita… Il fascio di luce, improvviso, violento come una lama di fuoco, tagliò il buio e colpì le pupille di uno strano animale volante, forse un grosso pipistrello, che lanciato un urlo stridulo, si dileguò nelle tenebre, altissimo.

Stordito, mi rialzai e tornai verso casa, piuttosto in fretta, madido di sudore, pieno di paura… Non sapevo che la mia avventura era appena all’inizio.

Cadendo un paio di volte lungo il sentiero di campagna, mi strappai i pantaloni all’altezza delle ginocchia ed il sangue aveva intriso la stoffa pesante… me ne accorsi solo arrivato davanti alla mia casa. Entrai nel tepore della vecchia abitazione, ansimando per la lunga corsa. Senza accendere la luce mentre mi spogliavo, con la luna che inondava la camera da letto, brillando nello specchio ovale… e sulla pelle candida di una presenza estranea, proprio accanto al vecchio comò… Non ebbi il tempo di provare curiosità, paura, orrore… Ero nudo, ferito e qualcuno mi fissava nella penombra, in quel silenzio spaventoso! Una voce di donna, lontana, flebile come un sussurro nel vento, arrivò alle mie orecchie:

– Non avere paura…

Non vidi muoversi la sconosciuta ma le sue mani gelide mi spinsero sul letto… poi sentii i suoi lunghi capelli ricadere sul mio viso, e la donna cominciò a passarmi la lingua sul collo, sul petto, sempre più giù fino… alle ginocchia ferite. La sua saliva si mischiò al mio sangue, senza dolore e con uno strano tepore che ci univa. Mi addormentai.

 Fu il sole della tarda mattinata a farmi aprire gli occhi; mi sentivo stranamente bene, rilassato, e solo dopo un po’ mi venne in mente quanto accaduto di notte. Istintivamente, cercai la mia sconosciuta ospite… senza trovarla. Sconosciuta dfino ad un certo punto, poi… sapevo benissimo chi era! Più tardi, in paese, affrontai il signor Saint Paul che si aggirava nel mercato.

Lo salutai e lui rispose di malavoglia, ma continuai:

– Che malattia ha, esattamente, sua figlia? E’ emofiliaca?

– Che le interessa? – bofonchiò, scuro in volto.

– Tanto per parlare… forse il clima di qui non è l’ideale per la ragazza.

– Bene, ha detto la sua… Ora, se vuole scusarmi…

– Eh, no! – mi parai davanti al vecchio – Per caso, soffre pure di sonnambulismo?

L’uomo non mi guardava in faccia.

– Stanotte l’ho incontrata.

– Mia figlia è una brava ragazza ma dorme poco.

– Stanotte è venuta nella mia camera da letto!

Saint Paul stavolta mi fissò allarmato – Cosa?

– Già, proprio così. Come lo spiega?

– Andiamo via da qui! – tagliò corto – Venga da me e parliamone.

 Con un bicchiere di rosolio in mano, nel salotto del villino Saint Paul, avevo finito da poco di rispondere ad una serie interminabile di domande sul mio conto e sulle mie abitudini, quando, finalmente, ne feci una io:

– Come si chiama sua figlia?

– Lisette.

– Dov’è ora?

– Dorme. Ed anche mia moglie. Ovviamente.

– Capisco. Posso aspettare che Lisette si svegli?

– No! Specie se ha assaggiato il suo sangue! – urlò il vecchio, alzandosi di scatto dalla poltrona di velluto verde. Si avvicinò al camino, acceso, grattandosi nervosamente il mento.

– Si sente sola, sua figlia, vero? – chiesi, con tono conciliante.

– Stanotte non è certo venuta da lei per questo! Sta solo cercando una vittima da prosciugare, come fece sua madre con me. Mi ripresi appena in tempo… Questa è l’unica forma d’amore che possono provare!

– Certe donne la pensano allo stesso modo. – ridacchiai, tanto per rompere la tensione.

– Lei non comprende. Ho vissuto con loro per tanti anni, amandole e proteggendole dal mondo dei normali e non consiglierei la stessa esperienza ad altri. Nascondersi sempre, cambiare città, riservati, silenziosi, misteriosi e senza amicizie… Che vita è? Ora torni a casa: la notte è vicina!

Mi spinse via da casa sua, dimostrando la massima preoccupazione. Che non condividevo affatto: ero stregato dal desiderio di rivedere la ragazza e, tornato a casa, aspettai con impazienza che scendesse la notte. Presi sonno senza accorgermene e mi destarono alcuni colpetti contro la finestra… Mi avvicinai al vetro e quel che vidi mi fece gelare il sangue nelle vene. Un enorme pipistrello nero stava cercando di attirare la mia attenzione picchiando il muso da ratto contro il vetro… Qualcosa in me costrinse le mie mani ad aprire le imposte per far entrare quella mostruosità che, alla luce della luna scese sul pavimento in forma di donna. La mia donna. I lunghi capelli nerissimi le sfioravano appena il seno pieno, florido, bianchissimo e la sinuosità della sua figura mi ipnotizzò completamente… Mi svegliò il suo fiato, ansimante, freddo come una lama di ghiaccio.

– Chi sei… tu?

– Quella che aspettavi. –  sussurrò lentamente, dolcemente.

– Vuoi il mio sangue, Lisette?

– Non temere, non ti ucciderò. Ma ho bisogno di te… Solo qualche goccia del tuo sangue mi garantirà la vita, ed io so come ricompensarti.

 Da allora, ci vediamo ogni notte e sta andando come disse lei. Lei che è il mio amore, la mia vita… ed io la sua. La vedo rifiorire dopo ogni prelievo che fa lei stessa, usando una siringa sterilizzata. Io brindo con lei, bevendo del vino, in due calici di cristallo purissimo. Poi ci amiamo fino al primo chiarore dell’alba quando Lisette, prima che la luna svanisca, vola via nell’aria fresca che scende dalle montagne, dopo avermi giurato eterno amore, il vero amore!

AmandA

Vi offro un altro dei mei racconti, stavolta un horror la cui trama mi è stata suggerita da un sogno… Uno dei miei racconti giovanili, scritti quando ero poco più che un ragazzo. Come al solito, aspetto i vostri commenti.

A M A N D A

 

 

 

racconto

 

di

 

Marco Caruso

 

 

 

 

 

A ben vedere, non avrei potuto dire niente di male della mia nuova fiamma. Amanda era giovane, carina, solare come un fiore in primavera.

L’avevo conosciuta al liceo di Salt Lake, durante una breve colazione nella mensa studentesca più vicina, prima della lezione di Fisica; la sua simpatia, naturale, spontanea, aveva aggredito il mio cuore come i suoi candidi dentini stavano facendo con il minuscolo panino vegetariano che Joan, l’atletica cameriera di Jing’s, le aveva appena servito al tavolo accanto al mio.

In quel momento, stavo discutendo con Phil Aitkins una nuova tattica da applicare per il prossimo incontro di basket nelle fasi di pressing che il buon Phil affermava d’aver perfettamente capito dal sermone settimanale del nostro coach.

Ora, devo ammettere che per il basket ho una certa passione; tuttavia, gli occhi color acciaio della biondina seduta a meno di cinquanta centimetri dalla tasca destra dei miei pantaloni, mi distraevano alquanto dalle spiegazioni del mio loquace compagno di classe, squadra e spuntino. O almeno, così egli affermò:

– Cazzo, Paul, mi stai a sentire?

– Con questo chiasso? – risposi, distrattamente, mentre osservavo la biondina detergere delicatamente una goccia di salsa dal lato sinistro della boccuccia a cuoricino.

– Chiasso? Qui c’è sempre chiasso, Paul! c’è mezzo liceo, da Jing’s… non mi dirai che ti piace quella… – aggiunse, abbassando la voce, dopo un attimo di stupore.

– Quella? Ti pare il modo giusto di appellare una dea?

Phil fece uno strano gesto di disgusto che vidi solo con la coda dell’occhio. La dea in questione si era appena alzata, aveva preso la borsetta e diretto il suo splendido fisico da ballerina classica verso l’uscita del chiassoso locale.

Phil aggiunse qualcos’altro sul conto da pagare mentre, ipnotizzato dalle più belle chiappe da sedicenne che avessi mai visto, mi accingevo a seguire la dea verso il primo pomeriggio assolato di quel settembre.

Fu l’inizio della mia storia con Amanda. Non servirebbe raccontarvi cosa inventai per abbordarla, dopo un paio di isolati in direzione opposta alla scuola.

Né ricordo, in questo momento, le frasi più o meno idiote che pronunciai nelle tre ore seguenti, prima di riaccompagnarla alla villetta appena fuori città.

Rammento solo che mi disse di essere nuova di quelle parti, di aver passato i primi anni della sua meravigliosa esistenza a Boston ed aver seguito la madre, per lavoro, nella mia città solo da pochi giorni.

Al momento di lasciarla, forse per il dispiacere di dover interrompere, magari per poche ore, la nostra frequentazione, eravamo arrivati alla sua abitazione, una villetta a due piani buia ed alquanto tetra che si ergeva all’inizio di un freddo viale alberato… mi parve quanto di più triste si possa immaginare.

– E’ tutto buio… I tuoi genitori sono in casa?

– Mia madre, vorrai dire… – rispose con un risolino malizioso – Papà non l’ho mai conosciuto…

– Oh, mi spiace.

– Fa niente. Non si può desiderare, o rimpiangere, chi non si conosce. Comunque, mia madre va a dormire molto presto. Ora ti devo lasciare…

Il bacio, rapido e furtivo, che mi lasciò sulla guancia destra, bruciò a lungo nei tre, lunghissimi, giorni che seguirono. Non vidi mai la ragazza al liceo, né, maledizione, ricordavo se mi aveva detto il suo cognome.

– Amanda, Amanda… Amanda come? – ripeteva Phil, mentre Erik, il ciccione, divorava salsicce. Io, che sedevo tra i due amici e che stranamente soffrivo d’improvvisa inappetenza, replicai, scocciato:

– Ti dico che non mi ricordo! Abbiamo parlato di tante cose,del padre che non ha…

– Mentre te la facevi sotto a guardare i suoi occhioni?… Coff… – tossì Erik mentre cercava di ridere e masticare contemporaneamente.

– Comunque – riprese Phil, non risulta nessuna Amanda, qui da noi. Ne sono certo. – E c’era da credergli: Joan (la sua nuova amichetta) era la figlia di un impiegato di segreteria.

– Forse la sua iscrizione non è stata ancora registrata. Dice d’esser appena arrivata da Boston. La madre è qui per lavoro.

– Quale lavoro? – bofonchiò Erik

– Che vuoi che ne sappia? Avrò tempo e modo per conoscerla meglio… Penso di andare a trovarla, magari dopo la lezione.

– Uhm – fece Phil, guardando dalla finestra ovest di Jing’s – Proprio stasera?

In effetti, alcune nuvole grigiastre piuttosto veloci si rincorrevano a bassa quota nel cielo tempestoso di quel sabato pomeriggio. La radio aveva annunciato un uragano ancora piuttosto lontano e, si sa, nell’America degli anni Trenta, la radio non sbagliava mai…

– Ho capito, furbone… – sorrise Erik – Fingerai di aver perso la strada nella bufera… Chissà come, dalle parti della tua bella… E chiederai rifugio ed ospitalità… Tra le sue cosce? O piuttosto tra quelle della mammina?

La sua risata sguaiata non mi irritò più di tanto. A dire il vero, l’idea del ciccione non era affatto malvagia. Un uragano era proprio quel che ci voleva per rivedere Amanda. Una piccola bugia per una grande causa!

E la bufera arrivò sul serio, poco prima che giungessi alla meta dei miei sogni. Vedevo appena la sagoma scura, che appariva e scompariva tra le chiome degli alberi scompigliate dal vento fortissimo, e non riuscivo a calcolare bene la distanza dalla villetta di Amanda. Avevo detto ai miei che avrei passato la notte da Phil che, per una straordinaria coincidenza, era stato felicemente abbandonato dai suoi, partiti per una gita di lavoro a Reno. Niente e nessuno mi avrebbe disturbato o tenuto lontano dalla donna padrone del mio giovane cuore.

Cominciò a piovere, prima debolmente, poi con goccioloni frenetici e freddissimi che scudisciavano il mio giaccone impermeabile, i capelli, entrandomi persino nelle orecchie a causa di quel maledetto ventaccio.

Ad un certo punto, mentre camminavo sulla Stradale assolutamente deserta, mi parve che la villetta di Amanda si allontanasse, ad ogni passo, invece che avvicinarsi. Un effetto ottico indubbiamente stranissimo, dovuto, probabilmente, alla falsa prospettiva che generava quella strada tutta curve fendente la vegetazione del sottobosco.

Ero ormai bagnato fradicio, infreddolito e scosso da folate di vento sempre più impetuoso, e non mi restò altro che dirigere una veloce preghiera a qualunque dio di passaggio nelle vicinanze affinché mi permettesse di raggiungere in fretta la veranda davanti alla porta che nascondeva la mia bella.

E, miracolosamente, la vidi. E vidi anche una debolissima luce filtrare dalle tendine ricamate di una finestra al piano superiore. Sembrava uno di quei lumini che si lasciano accesi nella stanza dei bambini per evitare che abbiano paura del buio.

Quando suonai il campanello a carillon, due, tre volte, nessuno rispose.

Ora il vento fischiava minacciosamente tra nuvole inferocite e lampi sempre più frequenti. Sembrava che un vero e proprio uragano si stesse avvicinando. Una certa inquietudine iniziò a scuotere le mie mascelle e mi ritrovai a battere i denti come un donnetta infreddolita. Perché diavolo Amanda non apriva? E sua madre, era sorda o invalida?

Bussai con le nocche della mano destra fino a ferirmi, mentre la pioggia mi sferzava la schiena e le gambe con una furia degna di miglior causa. Grondavo acqua anche dalle orecchie quando, senza che ormai ci sperassi più, la porta si socchiuse, e da dentro, una vocina flebile chiese:

– Ma… Chi è?

– Ehm… – cercai di schiarirmi la voce – Sono un amico di Amanda… Un compagno di liceo… Mi sono perso in questa bufera… Posso entrare?

  Non ricevetti subito risposta, mentre, istintivamente, battevo le mani al fine di favorire la circolazione dei miei arti superiori, praticamente intirizziti.

– E’ la madre di Amanda…? Signora, qui fa un freddo cane!

– Io non la conosco. – disse la vocina, timidamente. – Non sono abituata ad ospitare viandanti.

– Ma Amanda mi conosce! Può chiederle se conosce Paul? La prego, sono tutto bagnato…

– E’ da solo, ragazzo?

– Ma certo. Le ripeto che…

La porta si spalancò prima che finissi la mia supplica. Ed io, non so come, fui letteralmente risucchiato dentro quella casa, al buio, al freddo.

Stavo cercando di capire come fossi finito, in ginocchio, su un tappeto al tatto ruvido e sporco, e nel contempo orientarmi in quel buio assoluto, rotto solo dai lampi che provenivano dalle finestre del pian terreno.

– Sì…signora? Cosa…? Dove?… Signora!

– Ssshhhh… Non gridare….

 

La voce di Amanda, in un debole soffio, mi aveva sfiorato l’orecchio. Mi venne spontaneo sussurrare anch’io:

– Amanda, amica mia… Dove sei? Perché non posso vederti?

– La luce, Paul… E’ mancata la corrente a causa della bufera…

– Ma dove sei? Eri tu, o tua madre? Sai, non voleva farmi entrare…

– Noi  non riceviamo nessuno, specie di notte… Siamo donne sole. Perché sei venuto?

– Non ti ho vista più – confessai, sfinito dalla tensione e dalla stanchezza – A scuola non…

– Sono stata poco bene. Non saresti dovuto venire, specie con questo tempo, specie di notte!

Il tono della ragazza si era fatto più duro. Mi sentivo un bambino rimproverato dalla madre. Attesi una parola ancora da Amanda, mentre cercavo argomenti impossibili da trovare per alleviare la mia posizione.

Passò un minuto o forse un’ora. Persino i lampi non osavano più disturbare la quiete assoluta di quella casa, senza luce, assente di suoni, priva di calore. Il tempo fece una strana contorsione mentre stringevo le mie mani per recuperare un po’ di calore. Mi accorgevo solo in quel momento che stavo gelando. Bagnato com’ero, mi sembrava di trovarmi dentro un frigorifero.

– Amanda, ho un freddo… Amanda?

Ripetei quel nome varie volte, ma la mia voce rimbalzava in un incredibile eco sordo intorno a me, in quella stanza invisibile ed inconsistente. Cercai, a tentoni, istintivamente, di raggiungere il volto della ragazza che mi era parso abbastanza vicino al mio, durante il precedente scambio di battute.

– Amanda… – balbettai, tremando come una foglia al vento per il freddo che mi stava divorando le viscere – Non… vorrei esagerare… ma sto morendo dal freddo! Amanda… –

Niente. Nessuno. Ma com’era possibile non sentire il rumore della bufera?

Ora che i miei occhi si stavano abituando a quella apparente oscurità, mi resi conto che pochissima luce filtrava dalle tende pesanti tirate sulle finestre. Alcuni spifferi, di tanto in tanto, le scostavano quel tanto che bastava a provocare fugaci lampi di penombra nel buio più pesto.

Chiamai ancora il nome della mia amica, supplicandola di rispondermi, di accendere una candela, un fiammifero, qualcosa che facesse luce…. E magari, calore.

Fui costretto ad alzarmi e muovere qualche passo, al buio, anche perché non sentivo più le gambe. Fitte dolorose mi stringevano i muscoli, obbligandomi a sfregare freneticamente le mani tra loro e sui vestiti bagnati per alleviare l’intirizzimento.

Non riuscivo a trovare un punto di riferimento davanti a me; ed alle mie spalle, anche la bufera sembrava non scuotere più il bosco intorno alla costruzione silente.

Ricordai d’aver intravisto il chiarore d’un lumino provenire da una finestra del primo piano, mentre, da fuori, bussavo insistentemente alla porta di Amanda. Muovendo passi alla cieca, finalmente inciampai nel primo gradino della scala interna.

Ora potevo salire al piano superiore, appoggiandomi al corrimano, sempre nel buio più pesto. La mia mano sinistra sfiorava la superficie di legno ricavandone una sensazione di sporco oleoso, mentre i gradini sembravano arrampicarsi verso l’infinito… Quella scala arrivava da qualche parte? Da quanti, interminabili, minuti stavo salendo?

Ad un ceto punto, sembrandomi inverosimile la faccenda, mi fermai a riflettere. Stavo vivendo una situazione assurda: forse le mie sensazioni erano condizionate dal freddo che avevo preso durante la mia permanenza all’esterno, mentre infuriava il temporale. Ma non riuscivo a concepire il motivo di quel gelo che ora mi toglieva il fiato e rallentava le mie membra.

E Amanda dov’era? Forse, aveva paura di me, e si nascondeva… Ma certo: quale sistema migliore per bloccare un probabile aggressore? Buio e solo buio. Ed io non avevo neanche un cerino…

E quella scala che sembrava infinita? Ricominciai a salire, contando i gradini. Arrivai alla somma incredibile di sessanta scalini. Non era possibile. Non ero in un grattacielo. Una certa spossatezza riempiva le mie gambe e non sentivo più neanche il freddo. Mi fermai e cercai di sedermi sul gradino che calpestavo in quel momento. Ma, evidentemente, persi l’equilibrio e caddi… dove non immaginavo di cadere.

Mi trovavo al piano superiore, e davanti a me scorgevo la debole luce che avevo intravisto dall’esterno.

Tre porte si aprivano davanti a me, ma solo una era accostata e da lì proveniva il chiarore. Chiamai il nome di Amanda, stavolta molto piano. Tremavo dal freddo e le energie dei miei diciassette anni stavano rapidamente scemando.

Con la mano tremante, scostai la porta e mi ritrovai nella stanzetta di una bimba.

Il lumino a gas emanava una luce azzurrina sulla carta da parati colorata, le tendine ricamate, i cuscini con le bambole.

La madre di Amanda era seduta su una sedia a dondolo, ferma, accanto ad un lettino. Una donna minuta, vestita di scuro, con il volto provato e stanco. Dormiva. Le avrei chiesto il permesso di entrare, se fossi stato in grado di muovere le labbra.  Ma il freddo, ormai quasi tangibile, paralizzava i miei muscoli e mi domandai come diavolo facesse la donna a dormire così serenamente. La bambina nel lettino era voltata sul fianco destro, sotto la mano della madre che sembrava averla confortata fino a farla addormentare. Sul piccolo comodino di legno smaltato bianco, una caraffa d’acqua ed un bicchiere erano posati sul vassoio di legno smaltato, insieme ad un vasetto… Forse miele? Quell’idea mi piacque. Desideravo intensamente qualcosa di dolce, di nutriente, ed avrei solo assaggiato il profumato alimento, senza svegliare quella che doveva essere la sorellina di Amanda.

Ma quando stavo per svitare il tappo di latta, ebbi la sensazione che il corpicino nel letto non si muovesse affatto.

Cribbio, non respirava! Posai, istintivamente, la mano sulla copertina di lana, accanto a quella della donna assopita e toccai un gelido corpo inerte.

Sul vasetto che avevo in mano, un’etichetta ingiallita recava la scritta ARSENICO .

Realizzai quel che era accaduto, un attimo prima che la bambina, con un sussulto, si muovesse e, scostando la mano della madre sempre immobile, si rizzasse a sedere sul letto:

La frangetta bionda ricadeva sul visetto scheletrico e con la stessa mossetta che ricordavo di Amanda, sentii il corpo senza vita di quella sfortunata creatura sussurrare stranamente, come se il suono venisse dall’interno e non dalla boccuccia che pareva ancora chiusa, contratta in una smorfia durissima:

– Mi hai trovato, Paul. Questa è la mia tomba. Vuoi restare con me?

Non fu per paura che mi gettai contro la finestra, schiantando gli infissi di legno marcito e precipitando, dopo un volo che mi parve esageratamente breve, sul suolo intriso d’acqua. Qualcosa in me si ribellò a quella oscena proposta. La ragazza che cercavo non c’era mai stata se non per me, e per la bambina alla quale un gesto crudele aveva spezzato l’infanzia.

Qualunque fosse il motivo di quell’infanticidio, restai a riflettere, nei mesi successivi passati nel letto dell’ospedale cittadino a quanto avevo vissuto nella vecchia casa abbandonata ai margini del bosco.

L’interrogatorio doveroso dello sceriffo e le scarse spiegazioni ricevute dai miei genitori riguardo la villetta sulla strada provinciale, non placarono le domande che ancora affollavano la mia mente inquieta. In effetti, la famiglia Garrison aveva abitato una casa in legno ai margini del bosco fino ai primi anni del 1900, quando il marito ed il primo figlio si ammalarono e morirono di tisi, seguiti, dopo qualche tempo, dalla signora Garrison e dalla figlioletta, Amanda Jean Garrison, venuta al mondo dopo la scomparsa del padre e del fratello. Le cronache del tempo non riportavano commenti sulla causa di quella duplice tragedia avvenuta durante la tempesta di una sera di trent’anni prima.

Qualche anno dopo, tornai a visitare quel che restava di quella vecchia casa, lontana più di due chilometri dall’attuale centro di Salt Lake e non nella posizione in cui l’avevo sognata io.

Perché di un sogno si trattava, certamente, e non di realtà. Quante volte me lo sono ripetuto, in questi anni, mentre cerco di dimenticare gli occhi di una donna alla quale fu impedito di esistere.

CYBKILLER

Di seguito il racconto di fantascienza CYBKILLER

GRATIS da leggere per voi. Gradite le recensioni citando questo blog e l’autore

Una base lunare invasa da cyborg letali sullo sfondo di un conflitto che investe tutto il sistema solare.

CYBKILLER

Devo fare presto rincorrendolo lungo questi interminabili, spettrali corridoi che odorano di morte. Correrà a nascondersi, a preparare nuovi piani per assassinarci tutti. Le porte automatiche dei nodi di comunicazione tra i vari anelli di Luna 3 ora si aprono solo al mio passaggio, richiudendosi alle mie spalle; nessuno può seguirmi o precedermi perché il computer centrale della nostra base dirige, ora, i meccanismi di controllo delle porte d’ogni settore secondo le mie ultime istruzioni. Le serrature magnetiche si sbloccheranno solo se il sistema riconoscerà il segnale d’identificazione del mio chip cerebrale. E quindi, sotto le luci ridotte al minimo a causa dei danni sofferti dal generatore principale, gli unici passi affrettati sul pavimento sintetico sporco di sangue, sono i miei. Eppure, lui è vicino: lo sento.

Corro, stringendo il mitra laser tra le mani sudate: pur leggerissimo, può sparare fino a trecento scariche in 2,5 secondi… Peccato che il mio avversario sintetico possa muoversi altrettanto velocemente.

Quando accettai il comando su Luna 3, la guerra tra la Federazione Terrestre e la colonia ribelle di Titano era già scoppiata: in ballo la posta più ambita del ventitreesimo secolo, il controllo delle distribuzione dei cristalli d’uranio in tutto il Sistema Solare. Il conflitto fu subito cruento, devastante soprattutto per Titano, assediata e bombardata dalla flotta confederale. Da ieri sono otto mesi. A poco sono serviti i rinforzi arrivati da Marte, dichiaratosi subito neutrale e che, naturalmente, ha tutto l’interesse che la disputa non si concluda con una completa disfatta dei Titaniani. La colonia ribelle, tramite i propri rinomati centri di ricerca ha trovato solo il modo di contrattaccare con un’offensiva batteriologica arrivando a offendere persino la popolazione della lontanissima Terra. Inutile vendetta che non cambierà le sorti della guerra.

Il mio sensore da polso lancia il suo leggero richiamo: è Jura, il mio vice, che vuole parlarmi.

– Comandante Ryne?… rapporto dal centro comunicazioni.

Ho detto al tenente, un giapponese di fresca nomina come me, di chiamarmi ogni mezzora sul canale riservato.

– Rileva qualcosa dalla rete dei monitor?

– Solo la sua presenza, nel settore 3, corridoio numero 25.

– Sono a due passi dagli alloggi del personale. Eppure, sento il cyborg vicino…

– Impossibile: il computer centrale non rileva altre presenze. E come sappiamo, i cadaveri dei caduti sono ormai liquefatti.

– Controlli l’integrità dei programmi di scansione. Deve trovarsi qui! Ha ucciso Jones e Xavier e dato che le porte si aprono solo al mio passaggio, il cyborg non può che trovarsi oltre il settore degli alloggi!

– Comandante, stia in guardia! Farò l’analisi che ha suggerito. Rapporto alle tre.

La voce desolata del mio vice si spegne con il classico suono metallico. La frequenza è criptata ed almeno sull’integrità del settore delle comunicazioni possiamo ancora contare. Ma ora sto per confrontarmi con la tipica arma di ritorsione della morente colonia di Titano: cyborg sempre più sofisticati, del tutto somiglianti ad individui realmente esistenti, sequestrati e sostituiti dai loro doppi artificiali. Di solito, il sistema nervoso viene estirpato e trasferito nella macchina, dopo l’opportuno condizionamento. Il compito di quest’efficiente assassino consiste nello spargere la maggior quantità possibile del letale virus della peste marziana. E’ talmente simile agli esseri umani, totalmente bio-compatibile, che è tuttora possibile identificarlo solo mediante un particolare bio-controllore, l’unità installata su tutte le stazioni orbitanti e le dogane terrestri. Su questa base l’inizio del contagio, fulmineo quanto letale, risale ormai a due giorni or sono, quando su Luna 3 attraccò un mercantile diretto alla colonia su Venere. Scaricò qualche cassa di viveri e quattro passeggeri, tra i quali, mia moglie… Ricordo la felicità in quei suoi meravigliosi occhi verdi: rivederci dopo sei, lunghissimi mesi! Mi sorrideva, di là dalla parete di vetro che mi separava dal settore dei passeggeri in arrivo, mentre stringeva al petto Bingo, il gatto soriano che le aveva fatto compagnia durante la mia assenza. Accanto a lei, in attesa di sottoporsi all’esame dei bio-controllori, tre cadetti dell’Accademia di Guerra Spaziale di Parigi che avrebbero atteso la coincidenza per il Comando federale di Giove. Improvvisamente, mi separò dallo sguardo di mia moglie la voce di Jura dal sensore al polso:

– Comandante! Emergenza! I bio-controllori sono disattivati! Un guasto al momento inspiegabile… i tecnici sono già al lavoro. Cosa dobbiamo fare con i nuovi arrivi?

– Avete già controllato le generalità?

– Certo, sono le persone che aspettavamo, ma il regolamento parla chiaro… Mi spiace per sua moglie.

Non sapevo cosa fare – Quando deve ripartire il mercantile?

– Subito! Giù, agli hangar, stanno trattenendo a forza il comandante. Dice che sono affari nostri se i sistemi di controllo non funzionano; ha la sua tabella di marcia da rispettare e rischia di giocarsi il turno sulla rotta interplanetaria.

– Diavolo, lo capisco. Va bene, può partire, avvertendo dell’inconveniente il prossimo nodo d’attracco; e che gli ospiti vengano esaminati dallo staff medico! – tolsi la comunicazione, furioso per il contrattempo. Avrei potuto abbracciare Lucy solo dopo qualche ora: il primo momento felice dopo sei mesi d’inferno, trascorsi a ripristinare l’intero centro di comunicazione della base, e molte unità periferiche del computer centrale, oltre ad una stazione di rilevamento esterna. Tutto lavoro dovuto all’ultima impresa di un kamikaze dell’ormai estinta flotta di Titano, che, carico d’esplosivo, si era schiantato sul secondo settore di Luna 3. Dopo aver impartito, tramite il videofono, le necessarie istruzioni, abbandonai la sala di ricevimento dei passeggeri, diretto al centro medico; nelle previsioni, le prossime quarantotto ore sarebbero state piuttosto tranquille: un cargo da filtrare sarebbe giunto dalle miniere di Saturno dopo quasi tre giorni. L’allarme scattò all’improvviso. Le sirene urlavano disperatamente mentre gli altoparlanti diramavano le istruzioni al personale che doveva ritenersi in stato d’assedio. Chiamai Jura con il sensore da polso.

– Il computer ha lanciato lo stadio d’assedio…- mi spiegò.

– Mi raggiunga in sala di comando!

Correndo tra il personale non militare che andava a rinchiudersi negli alloggi e la Vigilanza che si dirigeva alle postazioni assegnate alle singole pattuglie, arrivai in sala comando solo dopo qualche minuto trovando Jura intento a ricevere un rapporto dal centro medico, terreo in volto; balbettando mi annunciò che in infermeria una delle unità automatiche per il rilevamento biologico aveva segnalato al computer centrale un’epidemia di peste marziana.

– Le porte del settore – continuò il mio vice – sono ora bloccate dal sistema di sicurezza. Ho già parlato con il dottor Schenkel: pare che, effettivamente, si tratti di peste marziana.

– Dannazione! Mia moglie è lì!

– Sì, e con lei, l’intero staff medico e i tre cadetti. Ci sono già due vittime… Rilevazioni?!

Il responsabile della sala di comando tolse per un attimo gli occhi dal monitor e si voltò verso di noi:

– Vanderburg e Volken. Erano della vigilanza; stavano scortando gli ospiti al centro medico. I loro sensori da polso non inviano segnale.

– Se è per questo – riprese Jura – Schenkel afferma che si sono liquefatti sotto i suoi occhi mentre le porte dell’infermeria si chiudevano automaticamente. Fortunatamente, sono rimasti fuori dai locali dove sono bloccati i sei membri dello staff e gli ospiti.

– Liquefatti… Allora non c’è dubbio. Che cosa elabora il computer centrale?

Un suono inconfondibile mi fece capire che la risposta dell’elaboratore era in arrivo. La solita voce elettronica femminile annunciò:

Luna 3 è in stato d’assedio. Tramite l’unità robotizzata HJ-325 ho rilevato la presenza del virus N-9200 UK chiamato anche peste marziana. L’allarme rosso è stato esteso a tutta la base e la nostra situazione è stata comunicata al Comando Federale di New York. Siamo in quarantena.”

– Perdio! – urlai – Computer, è il comandante che stabilisce quando ordinare la quarantena!

Queste istruzioni sono parte indelebile del codice di protezione. La quarantena è stata attivata automaticamente. Le ricordo, comandante Ryne, che lei conserva il comando delle forze armate presenti nella base, il coordinamento del personale civile, e la massima autorità sull’amministrazione degli affari correnti. Io attuerò le procedure previste dal codice di protezione, ed eventuali modifiche ed integrazioni inviate dal Comando Federale riguardo lo stato d’assedio e la quarantena cui siamo sottoposti finché il contagio non sarà debellato.”

– Jura, ha sentito? Siamo sotto l’autorità del computer…

– E del Comando Federale. Non esiteranno a sacrificarci se non neutralizzeremo quel maledetto cyborg!

– Cosa dicono dalla Terra? –

– Secondo il regolamento, in caso di quarantena le comunicazioni sono sospese, a parte brevi messaggi in codice ogni dodici ore. Saremo isolati dal resto dell’Universo, con il solo compito di annullare il flagello della peste marziana.

In quel momento, uno degli operatori ai monitor ci avvisò che era pronta la registrazione filmata degli eventi – La ripresa delle telecamere – spiegò il tecnico- inizia mentre si stanno aprendo le porte dell’ascensore…

Sullo schermo olografico apparvero le figure tridimensionali di Lucy, con il braccio il suo gatto soriano, i tre cadetti dell’Accademia, giovanissimi, e i due soldati della Vigilanza che, come prescrive il regolamento, tenevano il gruppo degli ospiti sotto il tiro dei phaser. Improvvisamente, mentre l’immagine di mia moglie varcava la soglia dell’infermeria, vidi i due soldati portarsi le mani al collo, e, nel medesimo istante, una nebbiolina verde diffondersi nell’aria. I due disgraziati crollarono in ginocchio, mentre la carne dei loro volti e delle mani si spaccava in centinaia di piccole fratture sprizzando sangue; le loro tute ben presto si gonfiarono come contenessero un liquido in ebollizione, ed in meno di dieci secondi i due corpi si sciolsero in una pozza di liquame rossastro schiumoso.

– Le porte dell’infermeria si sono chiuse in tempo- mormorò l’attonito Jura – Ma se il cyborg è lì con loro…Schenkel era sulla porta, ma non è riuscito a vedere chi ha spruzzato il micidiale virus!

– Perché i suoi uomini non indossavano caschi con respiratori? – chiesi a Van der Hoeken, l’anziano capo della Vigilanza, accorso in sala comando per assistere alla fine dei due malcapitati.

– Probabilmente perché sapevano che tute, caschi e respiratori non servono a un bel niente contro la peste marziana! I Titaniani la usano contro le nostre truppe d’assalto perché il virus riesce a disgregare anche l’acciaio temperato al Vibranium. Penetra e scioglie qualunque materiale e tessuto organico.

– E’ vero – confermò Vulzov, il capo-chimico – E’ questo il motivo per cui possiamo bombardare Titano dallo spazio, ma non ancora invaderla. Basta un milligrammo di liquido di coltura del virus per far sciogliere come neve al sole un blindato di prima classe.

– Possibile che proprio nulla resista almeno per qualche secondo alla sua azione?

– Solo alcune leghe attualmente prodotte, in quantità assai limitata, nelle fonderie di Venere pare che abbiano tali proprietà… – rispose, laconico, Vulzov.

– Comandante! – mi chiamò Jura – Vede come sta mangiando il pavimento del corridoio? – ed indicò con la mano l’ambiente olografico: dopo aver completamente mangiato i corpi dei due soldati, la sostanza verdastra stava corrodendo l’acciaio vetroso del pavimento, la lega più leggera e resistente dell’Universo!

– Niente paura – intervenne Vulzov – ha una capacità corrosiva limitata ai due-tre minuti. Non riuscirà ad arrivare al piano sottostante. Inoltre, un cyborg assassino, di solito, non ne contiene più di cinque milligrammi. Il problema è che il virus si riproduce solo a contatto con la materia organica; in pratica, si nutre di composti azotati. Per un’efficace azione distruttiva, dovrà uccidere ancora.

– Schenkel, dall’infermeria! – urlò un altro operatore.

– Comandante Ryne, mi ascolta? – La voce dell’ufficiale si diffuse dagli altoparlanti, ma il suo volto non apparve né sui monitor né tramite il riproduttore olografico

– Il computer non permette la trasmissione d’immagini dalla zona infetta – spiegò Jura – e loro non possono vedere noi. E’ l’unico modo per evitare che il cyborg possa avere informazioni utili sulla sala-comando.

– Schenkel, qual è la situazione?

– Ormai sapete che uno dei nuovi arrivi è un cyborg assassino ma non sono in grado di identificarlo. Sono qui con gli ospiti, ed il resto del personale medico è nell’altra stanza. La porta automatica ci divide. Tengo i nostri ospiti sotto la mira del mio phaser. Il computer blocca tutte le porte e, male che vada, moriremo solo noi… In ogni caso, sua moglie sta bene, e vuole parlarle…

– Martin, sono io… – sentita la voce di Lucy mormorare quelle parole incerte, me la immaginai pallida, tremante – E’ successo tutto in un attimo… E non sappiamo neanche chi è stato.

– Amore, sta calma. Non possiamo entrare perché il computer centrale ha preso il controllo delle operazioni in base al protocollo d’emergenza che non ammette deroghe. Non ti staccare da Schenkel.

Un cenno a Jura e lui tolse la comunicazione.

– Tutto il personale – disse poi – è chiuso negli alloggi e la Vigilanza sorveglia i gangli vitali della base. Il computer controlla e regolare il sistema di mantenimento e… – L’allarme suonò nuovamente, interrompendo il rapporto del Giapponese. I monitor furono sintonizzati immediatamente alle telecamere del corridoio d’accesso alla sala-ricevimento – I bio-controllori! – esclamò Jura – E la squadra numero due è ancora al lavoro! Del resto, sarebbero comunque bloccati lì.

Sullo schermo olografico apparvero i due operai che, bestemmiando, controllavano vani nel muro dai quali spuntavano cavi e schede biotroniche; Cuentas, l’esperto tecnico che li dirigeva, alzò lo sguardo verso le telecamere, poi avvicinò il sensore da polso alla bocca.

– Ah! finalmente ci ricevete! Siamo prigionieri del computer, vero? – chiese allegramente – Proprio come otto anni fa, quando mi trovavo sulla prima base orbitante di Plutone…

– Cuentas, sono il comandante. State attenti! Il computer segnala pericolo dalle vostre parti. Jura sta impartendo ordini alla Vigilanza del settore. Avete la peste marziana alle calcagna, probabilmente!

– Ma che diavolo dice?! Il cyborg non è bloccato in infermeria?

– Lo calmi – suggerì Van der Hoeken – Non devono interrompere i lavori. Potrebbe trattarsi d’un errore della centralina periferica di rilevamento.

– Cuentas, come vanno i lavori?

– Umpf! Secondo me, si tratta di sabotaggio! Apparentemente, c’è stato un sovraccarico nella piastra d’alimentazione e, se fosse solo questo, ci vorrebbero una quindicina d’ore di lavoro. In pratica, sono saltati gli schemi di difesa dalle intrusioni elettromagnetiche; invece che dati di ritorno, sono pervenuti all’elaboratore flussi d’energia elettrica. Inspiegabile!

– Jura, analisi del computer?

– Conferma l’allarme rosso. E il sabotaggio. Senta, a mio parere, quei tre sono in pericolo mortale! La Vigilanza è dietro la porta della sala, ma ovviamente non può entrare.

In quel momento, vidi una sottile nebbia verde invadere l’ampio locale dove operavano i tre uomini. Gli operai furono i primi a morire; Cuentas arretrò, urlando, fin sotto i bio-controllori, poi si portò le mani alla gola e crollò sul pavimento già bagnato dal sangue dei compagni. L’orrore gelò la sala-comando e solo dopo qualche minuto, Jura riuscì a dire:

– E’… è uscita dal condotto d’aerazione.

– Quindi il cyborg è lì dentro… – Vulzov era incredulo – Ma com’è possibile? E’ un condotto largo appena sedici centimetri… nessuno potrebbe infilarsi lì dentro!

– Nessuno con le dimensioni d’un essere umano… Il gatto di mia moglie! – urlai – Quel maledetto gatto!

Jura mi guardò, esterrefatto. Poi, fissò di nuovo la luce rossa della spia mentre suonava l’ennesimo allarme. – Si sta dirigendo qui! Se si muove attraverso i condotti d’aerazione, è sotto di noi, a meno di tre metri…

Ordinai di sgombrare la sala, dopo aver impartito i relativi ordini al computer centrale, essendo quel settore l’unico non sottoposto a vincoli particolari per esigenze operative; dettai i codici d’emergenza direttamente dal sensore da polso e subito si bloccarono le porte d’accesso. Per quel che poteva servire.

– Jura, andate tutti nella sala comunicazioni. Rapporto ogni mezzora attraverso le frequenze criptate dirette al mio sensore. Van der Hoeken, mi passi il suo mitragliatore e comandi ai suoi uomini di ritirarsi immediatamente in sala comunicazioni: l’unico punto di Luna 3 totalmente isolato e sigillato, dato che contiene la memoria del computer centrale e la sessione direttamente collegata alla Terra. Una volta chiusa la porta alle vostre spalle, avrete trentasei ore d’ossigeno e di provviste. In questo lasso di tempo, il cyborg non potrà assolutamente raggiungervi, a meno che non disponga di cariche plasmatiche ad alto potenziale per abbattere le porte di titanium. Intanto, io sarò il solo a potermi muovere per i corridoi della base e conto di attirare quel maledetto in un duello faccia a faccia.

– Spari da lontano, comandante – raccomandò Jura – perché se anche riuscisse ad abbattere il mostro, non sfuggirà al virus!

Da quel momento, sono trascorse trentadue ore. Jura non è riuscito a darmi notizie di mia moglie. Nel frattempo, il maledetto cyborg ha seminato morte per tutta la base, mentre le sirene accompagnavano la triste fine del settanta per cento del personale e della Vigilanza. Ho trovato, nel mio vagabondare, i resti liquefatti di molti dei miei uomini, mentre gridavo con tutto il fiato al mostro di raggiungermi; ma, ad ogni allarme, operai, tecnici, ausiliari ed agenti armati hanno violato la consegna e sono usciti dai loro alloggi: il terrore della peste marziana è stato più forte della razionalità. Mentre le porte che dividono i settori sono rimaste chiuse, il cyborg ha potuto attaccarli con facilità, ottimizzando la dispersione della sostanza virale; inoltre, il virus ha potuto nutrirsi di gruppi consistenti di corpi, riproducendosi abbondantemente. Ora, il 67% della base è invaso del contagio, almeno secondo le stime del computer centrale. Gli unici superstiti tra quanti la popolavano prima dell’attacco, sono riuniti in sala comunicazioni e, spero, in infermeria. Jones e Xavier, due agenti della Vigilanza barricati in sala mensa, a venti metri di corridoio da qui, stavano diventando tutt’uno con il pavimento mentre passavo da lì. E’ ora di chiamare Jura:

– Tenente, se il cyborg continua a muoversi utilizzando i condotti dell’aria, vuol dire che utilizza parte del virus per eliminare le chiusure ad ogni nodo di passaggio; il computer dovrebbe segnalare il danno e dare quindi una mappa dei suoi spostamenti!

– Provo ad interrogarlo… E’ vero, una debole traccia del malfunzionamento dei condotti resta nel database dei processori di ogni nodo! Ora sembra che stia tornando indietro, verso l’infermeria!

Torno sui miei passi, cercando di superare la sua notevole velocità. Suona, insistente ed inutile, la sirena mentre, correndo per i corridoi di Luna 3, cerco di non calpestare i poveri resti di quelli che erano i miei uomini. Non sento il classico odore della morte perché il virus si nutre anche di quello. I pavimenti risultano danneggiati in più punti e non è possibile utilizzare gli ascensori. Alcune zone sono rimaste al buio perché le unità periferiche del computer sono state in più punti disattivate dalla corrosione virale. Finalmente, arrivo in infermeria, dopo novi minuti di corsa affannosa. Come previsto, la porta si spalanca al mio ordine. A terra, solo un’oscena pozza ribollente di materia organica in decomposizione dove galleggiano i resti delle divise sintetiche federali.

– Martin, amore! – urla Lucy, sorridente, bellissima. Apre le braccia, correndo verso di me. Non mi aspettavo di trovarla ancora in vita e, mentre la commozione allenta i miei riflessi, lei mi abbraccia, mormorando:

– Il mio gatto… non potevo sapere…

Sento strani rumori metallici, alla mia destra. Mi stacco bruscamente da mia moglie, guardando la bocca d’aerazione. In una frazione di secondo, punto il mitragliatore e sparo ripetutamente contro una forma scura che, velocissima, piroetta in aria e cade sul pavimento mentre i miei colpi la inseguono. L’ultima scarica la sfiora appena… posso vedere finalmente il gatto, mezzo bruciacchiato, restare immobile a due metri da Lucy.

– Stava per aggredirti…

Ma lei sorride ancora – Ha seguitol’odore della sua preda per tutta la base, mentre decimava i tuoi uomini… – poi tace per spalancare la bocca… Vedo spuntare da quelle fauci un grosso topo che scende agilmente dal collo e balza sul pavimento.

Non posso reagire, paralizzato dalla sorpresa e dall’orrore. Il topo avanza lentamente, fissandomi con due occhi neri, lucenti, spaventosi, e Lucy, la sua oscena tana, ride sguaiatamente…Schenkel ed i tre cadetti non hanno avuto scampo, pensando che il cyborg fosse il gatto!

Guardo il caricatore del mitra: ho un solo colpo. Gli occhi metallici del mostro fissano il mio viso. Quella che prima del criminale trattamento dei Titaniani era mia moglie continua a ridere. L’ultima scarica del mio mitra fa volare lontano il sorriso che tanto ho amato. Mi preparo a morire ma, con la coda dell’occhio, vedo il corpo del gatto scosso da un violento sussulto. L’animale si alza sulle zampe, faticosamente: l’istinto e l’orgoglio sono più forti del dolore… balza sul topo, lo ghermisce, gli stacca la testa e la ingoia.

Esco dall’infermeria prima che morda il serbatoio del micidiale virus.

racconto di Marco Caruso – ogni diritto riservato