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Oggi vi faccio omaggio di un doeiracocnti contenuti nella raccolta VITTIME SACRIFICABILI.
Buona lettura.
MIRACOLO A NAPOLI
Spesso sentiamo parlare di un termine, o meglio un concetto, che il più volte ci appare astratto e persino fantasioso. La fede, una delle facoltà umane più assimilabili alla fantasia fa certamente, talvolta, miracoli; più spesso è fonte di grandi illusioni e magari altrettante, conseguenti, delusioni.
La storia che sto per raccontare, invece, somiglia maggiormente alla cronaca e rivaluta il concetto di fede, in qualche modo. Era parte dei racconti che mia nonna paterna mi descriveva con grande abbondanza di particolari. Le sue mille storie, le poesie che scriveva, le memorie di una vita intera, trascorsa tra la gioventù a Napoli e la vita adulta nella Roma durante il Fascismo e la Guerra, generavano in me, allora bambino, un fascino incredibile. Erano tutte storie rigorosamente vere, tratte dalla memoria di una signora di circa settant’anni, lucida e saggia come poche persone di mia conoscenza.
Talvolta, mi raccontava delle imprese, per lei assolutamente fuori dal normale e dal razionale, che avevano visto per protagonista principale una sua zia materna, una suora tra l’altro nota per aver curato a mani nude i lebbrosi di Napoli senza contrarre minimamente alcuna conseguenza funesta sulla propria salute.
Una donna alta, imponente, dal viso severo ma ingentilito da rughe che sembravano conferirle la pacata serenità di una donna di fede. Portava alla cintura che stringeva la sua semplice veste da suora, un Cristo d’argento lungo quindici centimetri. Secondo lei, l’aveva protetta durante tutta la sua vita dedicata a lenire le altrui sofferenze.
Nel 1911 era cinquantenne e a quel tempo, Napoli era preda di una terribile epidemia di colera. Questo male è provocato da un bacillo, il Vibrio Cholerae, che si riproduce nell’apparato digerente dell’essere umano. Una forte diarrea è il sintomo dell’infezione insieme a notevoli dolori addominali. Il vomito accompagna queste scariche e la conseguente disidratazione limita l’emissione di urina.
Il corpo del malato diventa quindi disidratato e la sensazione della sete molto accentuata. Un’intensa sensazione di freddo, nota come fase algida, è il sintomo finale: la morte sopraggiunge nel giro di poche ore. Il problema aggiuntivo all’epoca era, specie nelle zone meno pulite della città, la contaminazione di acqua e cibo. Trovare quindi acqua pulita e nutrimento non inquinato non era facile. Napoli aveva già vissuto disgrazie simili, ventisette anni prima.
Infatti, iniziata nel maggio del 1817 nella città indiana di Calcutta, il colera cominciò a mietere migliaia di vittime anche nell’esercito inglese. Alcuni sopravvissuti fuggirono mediante il fiume Bengala e il morbo fu quindi trasportato lungo i territori di frontiera settentrionali.
Nel corso dell’anno successivo, grandi città come Delhi, Lahore, in Birmania e parte della Tailandia e della Malesia, furono contagiate. Chi viaggiava lungo lo stretto tra l’Oceano indiano e l’Oceano Pacifico, sparse il contagio anche a Sumatra, nel Borneo e persino nelle Filippine.
Le vittime erano centinaia di migliaia e abbondavano negli strati più poveri delle popolazioni arrivando il morbo a contagiare comunque anche mercanti, artigiani, importatori e militari che a loro volta lo trasportarono nei paesi d’origine.
Una nave da Calcutta lo esportò infatti nell’isola Mauritius e quindi in Africa orientale. Sempre tramite i commerci, nello stesso periodo, il colera arrivò in Cina.
A causa di una repressione militare operata dagli Inglesi per combattere la tratta degli schiavi sulle coste dell’Arabia, che causò alcune migliaia di morti, brutalmente gettati in mare per la difficoltà e forse la paura nel doverli seppellire, il male raggiunse altre coste arabe e del Golfo Persico.
Nel 1822 il colera sconvolse le città lungo il Tigri e L’Eufrate e arrivò a Baghdad. L’anno successivo, arrivò in Siria e in Libia, a Tripoli.
Il freddo era considerato l’unico, vero nemico, del colera. L’Europa sperava infatti che l’inverno del 1823 avrebbe costituito una barriera sufficiente contro un male che atterriva la gente prima di preoccupare le autorità sanitaria, più temuto di qualsiasi guerra. Ma fu un calcolo errato dato che la prima città a contare i morti da colera fu la fredda Orenburg, in Russia, dove si sviluppò per ventidue mesi nonostante temperature sottozero.
Casi di colera furono quindi registrati a Mosca, nel 1830. Nell’estate successiva arrivò in Germania e soprattutto a Vienna. Solo nell’allora Impero Austro-ungarico, furono contate duecentocinquantamila vittime nonostante che le strutture igienico sanitarie fossero nettamente più avanzate che nel mondo orientale dov’era nato il micidiale morbo.
Anche allora, tuttavia, i commerci non si fermarono e il colera raggiunse l’Inghilterra a bordo di una nave commerciale partita dal Mar Baltico, fino a toccare Londra.
Nel 1832, durante il mese di marzo, Parigi entrò nel panico più totale Dopo i primi ammalati, la gente cominciò a provare orrore e rabbia. La medicina poteva fornire solo sollievo caritatevole e alcuni disordini provocati dalla cittadinanza esasperata causarono vittime persino nel personale sanitario, mentre furono distrutti ospedali e farmacie.
Altre vittime si registrarono nelle più grandi città di Belgio, Olanda, Portogallo e Prussia.
In Italia arrivò nel 1837 direttamente da Nizza. Furono inizialmente colpiti il Lombardo-Veneto e quindi il Regno delle due Sicilie. Dal 1884 al 1886 toccò alla città di Napoli.
In Italia ci si accorse, proprio grazie alla spietatezza di un male tanto massacrante quanto inguaribile, che le precarie situazioni igienico-sanitarie erano alla base non della nascita del morbo ma certamente della sua estrema capacità di diffondersi. L’inchiesta ufficiale del Regno d’Italia, stabilì che ancora nel 1886, solo 1858 comuni su 8258 avevano una rete fognaria. Nelle grandi città, tra l’altro, le condizioni delle masse disagiate erano nettamente peggiori a quelle che caratterizzavano i ceti più abbienti.
A Napoli, nel lazzaretto di Nisida, si applicava da sempre una grande dedizione nella cura dei pazienti e iniziarono dei tentativi terapeutici mediante le iniezioni di acqua salina, precorritori dunque della moderna terapia praticata con soluzioni fisiologiche e puffer polisalini. Spesso, però, fu isolato, nell’acqua di mare del golfo di Napoli, il vibrione del colera.
In occasione del ritorno del colera, nel 1911, fu costituito un Comitato di pubblica assistenza a Casagiove, circa trenta chilometri dal capoluogo partenopeo. Alcune personalità si riunirono in questo comitato per portare in ogni modo assistenza a chiunque si fosse ammalato.
A presiedere tale comitato, l’avvocato Giovanni Tescione che verso la fine del mese di giugno 1911, scrisse: “il terribile morbo” pel tramite di qualche operaio che si era recato a trovar lavoro nei dintorni di Napoli, fece la sua funesta apparizione in Casagiove e si diffuse con una rapidità che sbalordiva. La crudeltà del male non conosce limiti”.
Nella grande città, invece, fu il dottor Henry Downes Geddings, a lanciare l’allarme. Si trattava di un ufficiale medico statunitense del servizio sanitario pubblico, di stanza nella città portuale italiana fin dall’inizio Novecento, quando Napoli era un centro importantissimo per il controllo delle migrazioni intercontinentali verso l’America, ma anche un obiettivo sensibile per le attenzioni dei servizi di “intelligence” nel Mediterraneo riguardo la sorveglianza sanitaria americana.
Infatti, durante l’estate del 1910, il colera cominciò a mietere le prime vittime a Napoli, e Geddings scrisse subito al capo del servizio sanitario italiano a Roma, dichiarandosi molto preoccupato dato che l’epidemia di colera del 1884 aveva devastato la città, uccidendo circa seimila persone, due terzi dei decessi totali in Italia.
Il comune prese allora il provvedimento di edificare l’acquedotto del Serino, operazioni poi eseguita in tre anni, oltre a riqualificare alcuni quartieri particolarmente degradati.
Purtroppo, le autorità sanitarie italiane stavolta non presero troppo sul serio la diagnosi del medico americano: per loro si trattava di casi di grave enterite. Passò un altro mese prima che l’allarme di Geddings fosse ascoltato davvero. Tuttavia le migrazioni non attendevano e quindi l’otto di settembre, l’ufficiale medico decise di scrivere ai suoi superiori a New York per denunciare l’esistenza di un’epidemia nascosta e descrivere quali misure di profilassi sarebbero state necessarie da mettere in atto nel porto. “Vivevo in un paradiso degli ingenui, degli stolti” commentò nella sue lettera.
Ma il vero motivo che spinse le autorità italiane a nascondere, inizialmente, il grave contagio fu la politica decisa a Roma da Giolitti. Sotto la sua egida il governo dichiarò l’epidemia finita dopo appena un mese, nell’autunno del 1910, anche se purtroppo continuò fino alla primavera dell’anno successivo.
A Napoli, toccò come sempre a valorosi medici come Giuseppe Moscati, che prestò servizio presso gli Ospedali Riuniti, e che fu anche incaricato di effettuare ricerche sull’origine dell’epidemia: i suoi consigli su come contenerla e attenuarne gli effetti sulla popolazione, contribuirono a limitarne enormemente i danni.
A quel tempo, per chilometro quadrato, la città bassa di Napoli ospitava 130.000 abitanti, mentre nel resto della città se ne contavano 640.000.
Le tre, coraggiosissime, donne frequentarono per quasi un anno intero la città bassa, distribuendo acqua, cibo, vestiti puliti e i medicinali caritatevoli che riuscivano a portare con loro.
La suora aveva convinto le sue parenti che il Cristo che portava alla cintura le aveva riferito, in una visione notturna, che tramite l’aglio si poteva vincere il contagio. Disse loro di riempirsi le tasche di aglio fresco e bagnarsi il volto e le mani con un decotto fatto con una testina per un litro d’acqua leggermente salata.
Le tre donne, insieme a tanti altri volontari, lavorarono alacremente per lenire le terribili sofferenze provocate dal colera. Intorno a loro, le vittime, alcune centinaia, pareggiarono il numero dei malati e venivano seppellite in tutta fretta da persone terrorizzate molto al di fuori dell’abitato, senza poter compilare un registro preciso.
Alcuni preferirono barricarsi nelle case con infetti e deceduti. Alla fine le tre donne furono risparmiate del tutto. Non così un loro parente, partito per lavorare in America.
L’ultimo focolaio del terribile morbo si registrò infatti negli Stati Uniti quando la nave a vapore Moltke trasportò alcune persone infette da Napoli a New York City. Le autorità sanitarie isolarono gli infetti in quarantena su l’isola Swinburne . Le vittime furono undici tra cui uno degli operatori sanitari americani presso l’ospedale sull’isola.
Durante le epidemie peggiori che hanno flagellato le grandi concentrazioni di esseri umani che noi definiamo città, l’applicazione di rimedi semplici, uniti a una grande fede in qualcosa o qualcuno che potesse portare sollievi e salvezza, ha costituito un rimedio altrettanto efficace in rapporto a profilassi scientifica e cure mediche. Viceversa, l’arroganza e l’ingordigia di gente con pochi scrupoli ha sempre apportato disgrazie in aggiunta a eventi naturali come l’insorgenza di grandi epidemie.
****** VITTIME SACRIFICABILI è una raccolta di racconti ispirata al tema del contagio.